Dilemma etico ed etica narrativa

Quando il male ci viene addosso e colpisce, lasciandoci vulnerati e deboli, la prima domanda che ci assale è quale senso abbia vivere, se siamo così esposti a cadere nella disabilità. È una domanda etico-filosofica prima che clinica o psicologica. E ad essa si collega un’altra questione: riuscirò a reinventarmi una vita? Ce la farò a darmi nuove regole comportamentali, relazionali, lavorative, di cui vantare il diritto, di cui esigere il rispetto, perché sono le mie norme? Queste norme romperanno le barriere che i “sani” si sono costruiti, dimenticando che, visto da vicino, nessuno è “normale”, nessuno è in grado, senza aiuto, di saltare gli ostacoli della vita. Gli standard prestazionali di tipo giovanilistico, efficientistico, produttivistico dovrebbero lasciare il posto a una convivialità inclusiva, accessibile, democratica.  

I dilemmi concreti di bioetica clinica prendono luce nella cornice di questa silenziosa rivoluzione culturale. Intendiamo i dilemmi di cui tratta qualsiasi manuale di counseling sanitario: quali cure sono proporzionate alla mia condizione di malato o disabile, una condizione che non è solo medica ma esistenziale? Fino a che punto espormi a interventi invasivi e intensivi, se le chances di successo sono incerte e limitate? Quando interrompere i trattamenti, per il fatto che mi sembrano indegni, onerosi, alienanti, umanamente disturbanti e penosi? Noi bioeticisti clinici facciamo il computo fra fattori diversi: il miglioramento atteso della qualità di vita, il prolungamento della vita, le percentuali di efficacia, i costi economici, il peso psico-fisico delle cure. Ma come è facile vedere, alcune di queste dimensioni sono oggettivabili e prevedibili, altre sono invece soggettive e dipendono dal significato morale che ogni soggetto, in modo originale e imprevedibile, assegna al ricovero, ai rischi tecnici, alle ricadute sull’entourage, ai sintomi residui, alle possibilità lavorative, unitive, procreative che rimangono praticabili. 

L’etica narrativa riformula dunque la domanda di partenza. Non “che cosa devo  fare?”. Ma “chi desidero essere?”. Come voglio scrivere il prossimo capitolo del romanzo della mia vita? Quale sequenza filmica preferisco girare per rendere il film del mio destino felice e degno di fronte a tutti? I conti si fanno dopo. I criteri di comprensione e valutazione si formulano prima, a partire dall’oggi della mia diagnosi e sulla base dei sogni, che accarezzo. Ci muove l’attesa di un finale biografico riuscito, pertinente, bello, mio, nonostante e attraverso gli handicap che ci assediano.  

Il film Don’t worry, regia di Gus Van Sant, con Joaquin Phoenix, Mara Rooney e Jonah Hill, girato negli Usa nel 2018, narra di John Callahan (interpretato da Phoenix), alcolista di Portland pesantemente legato al vizio del bere. L’alcol lo aiuta a stordirsi e superare timidezze e inibizioni sociali. Le ragioni sono antiche e risalgono alle difficoltà di bambino adottato: “Mia madre non mi voleva”. Ne derivano conseguenze nefaste, non solo sul piano fisico, ma soprattutto sull’autostima: le droghe impediscono al protagonista di percepire desideri originali, di scommettere sui propri talenti. Lo squilibrio morale è destinato a schiantarsi in un incidente stradale che lo condanna a una sedia a rotella. Alla guida c’era un suo compagno di bevute: “Dexter scambiò un palo della luce per un’uscita e lo prese in pieno a 150 Km orari”.

Ispirato alla storia del vero John Callahan (1951-2010), questo film biografico (biopic in gergo) ci offre una parabola, prima tragica e poi inaspettatamente felice, dell’odissea di un disadattato, portatore di gravi disabilità. La salvezza viene dagli  incontri che John testardamente cerca e fortunatamente accoglie. Gli occhi di cerbiatta  di Annu (Rooney), delicata e attraente, che lo incoraggia. Le regole bizzarre e severe  impartite dal conduttore gay di un gruppo d’auto-aiuto: sincerità nel confessarti, premura per l’altro, gratitudine per chi ti avvicina.

E John impara. Impara che il disagio non va nascosto ma espresso, in nome di una società più equa. Così John si addestra a immaginare e disegnare in vignette la sua urticante ironia. Diventerà uno dei cartoonist più apprezzati d’America e porterà a romantica maturità l’amicizia con Annu. 

Il cinema gioca per natura sull’aggiramento dell’handicap. Immobili sulla sedia, nella sala di proiezione, al buio, tra estranei, empatizziamo con un mondo fantastico, che è spesso più reale di quello quotidiano. I fotogrammi scorrono illudendo il nostro occhio e fingendo un movimento (kìnema significa movimento, in greco) che tenta di sciogliere gli incubi e ricomporre le fratture che sperimentiamo nelle frustrazioni e nell’infelicità comune. 

Le accademie di bioetica chiedono il sostegno della narrazione filmica per dare un senso all’informe, con la stessa fatica con cui John impugna a due mani la traballante  matita. I disegni irriverenti, satirici, politicamente scorretti, sono prodotti dal suo corpo spastico, in tensione, il quale si apre a un sorriso affettuoso, nella speranza che i lettori lo riconoscano e reagiscano ai suoi graffi salutari. Come con ogni malato grave dopo un intervento terapeutico impegnativo, noi solidarizziamo con il personaggio che sente la benedizione e il compito di rinascere una seconda volta, in un difficile svezzamento, apprendimento, crescita, in una nuova adolescenza, verso un compimento sorprendente.

A volte, vivere è come scivolare su uno skateboard con un catetere vescicale. I cosiddetti cittadini “funzionanti” non lo capiscono. Dont’worry. Ho won’t get far on foot (“Tranquilli, a piedi non andrà lontano”) è il tremendo titolo dell’autobiografia del vero John. È la beffarda e denigratoria battuta con cui i despoti escludono il “diversamente abile”, che vorrebbe innescare la legittima battaglia per una ricostruzione più autentica dell’ospedale, della città, della mente.

Torniamo all’etica. In un recente volume [Perché il male, Il Portico, Bologna, 2023] ho mostrato che il male contesta, nella sua irrazionale, scandalosa, assurda presenza, la presunzione di quei sistemi filosofici (laici o religiosi) che vorrebbero giustificare il negativo e trovare un senso convincente alla contraddizione. No. Il male “genuino” non ha una finalità in sé e non è finalizzato a produrre un maggior bene nel futuro. La stessa morte, a nostro avviso, non è un fenomeno naturale. E’ vero che tutti di fatto moriamo prima o poi (almeno per ora), ma non dovremmo morire, perché la malattia infausta spezza i legami più cari e i progetti più costruttivi. Il male merita un’opposizione e una lotta tenace (anche se non accanita) e il nostro desiderio di vita, libertà e salute reclama una dignità suprema.

Ora, una disabilità sorge quando una patologia accade in un contesto sfavorevole, così che il malato risulta penalizzato rispetto al “sano” (o “non ancora malato”). Perciò la classificazione dei tipi di disabilità solleva problemi teorici e non solo biomedici, dato che occorre identificare i fattori corporei, personali e socioculturali dell’inefficienza, evitando sia il lassismo (che si arrende precocemente al deficit) sia il conformismo (che imita gli standard dominanti di salute) sia il perfezionismo prestazionale (che legittima ogni potenziamento o doping pur di ottenere risultati da primato). Ognuno di noi è più vulnerabile in qualche apparato e perciò è, almeno potenzialmente, un disabile. Proprio per evitare che la riabilitazione sia guidata da modelli di “vita buona” ideologici, strumentali e faziosi, occorre mettere alla prova costantemente il linguaggio delle classificazioni. Un linguaggio che solo in apparenza è “oggettivo” e che invece custodisce scelte latenti di valore. La narrative medicine (la cinema based medicine nel nostro caso) e le medical humanities sono un’ottima palestra per condurre questa esplorazione critica e questa indagine sperimentale sui vocabolari da noi impiegati ogni giorno.

Paolo Marino Cattorini, counselor filosofico, bioeticista clinico, già docente universitario e componente del Comitato nazionale italiano per la Bioetica.