Accogliere vuol dire amare, ospitando l’anima e la storia di chi si fa prossimo. L’accoglienza di una persona diversamente abile è un gesto etico, prima ancora che istituzionale, un gesto che evoca le dimensioni più profonde della nostra stessa esistenza e più arcane del nostro mondo interiore. Gesto di riconoscimento, di reciprocità, di dono. Gesto di Cura. “La Cura, scrive Emmanuel Lévinas, è dono di sé, è co-partecipazione alla vita nel suo Mit-sein, nel suo essere per, essere con, essere verso, essere di fronte, è sentirsi co- responsabile per l’intero edificio della creazione“. È come se attorno a quell’incontro si mischiassero le emozioni del presente insieme ai fantasmi più antichi. Fantasmi che ci abitano, sorgenti allo stesso tempo di scoperta, di grandi slanci solidali, d’importanti investimenti affettivi, ma anche di angosce generative, di sensi di colpa, d’impotenza sino alla rassegnazione, di difese che prendono spesso nella riabilitazione le forme della mera “robotizzazione” della persona disabile. È di questo intreccio di sentimenti e di pensieri, del rischio di una “piegatura” solamente tecnica dei gesti, di questo continuo oscillare tra pratiche prescrittive e dimensioni discrezionali, che vogliamo parlare .
Qui il quotidiano lavoro di accoglienza, eticamente orientato ai valori della dignità, della libertà, dell’autodeterminazione, della compassione, si confronta con la particolare temporalità della cronicità, con il bisogno di dipendenza ocnofilica degli ospiti, con la ferita dolorosa, ma pulsante dei desideri. Di ciò che è senza esserci, di ciò che può divenire, di ciò che è senza ancora esserci. Accogliere non è dunque solo “fare posto”, ma esporsi e disporsi alla comune e reciproca esperienza, spesso anche dolorosa, della lontananze, della prossimità, degli investimenti emozionali eccessivi o al contrario rassegnati, sentimenti di onnipotenza e subito dopo di impotenza e di colpa. Di tutto ciò è fatto il quotidiano della cura e dell’aiuto. Vi è però un vertice tra tutte queste condizioni dell’accoglienza, che diviene comune costruzione tra istituto e famiglia, tra educatori e genitori, senza il quale la persona diversamente abile, anche se amorevolmente curata e aiutata, rimarrebbe prigioniera della “ferita” immaginaria di chi lo voleva o di chi continua a volerlo comunque diverso da ciò che è. Una “prigionia” con la sua sequela di delusioni, di attese miracolistiche, di sentimento di colpa, di aggressività, che gli negano la possibilità di essere pienamente una persona anche se diversa. Questo vertice è il comune lavoro del lutto che educatori e genitori devono anche se in forme diverse costantemente fare. Un lavoro certamente interiore. che apre l’orizzonte della cura e dell’aiuto. Non più solo quella del disabile bisognoso da aiutare, ma quella della Persona e del cittadino da ascoltare. La cura e l’aiuto però non bastano perché l’accoglienza rimanga viva e non degradi in semplice e ripetitiva routine, è necessario che la persona disabile, relativamente alle sue capacità, sia messo nella condizione di esercitare i suoi talenti nascosti ma anche una cittadinanza dentro il luogo di accoglienza o di lavoro, perché si sottragga alla condizione immutabile di eterno bambino, di bisognoso, di dipendente e divenga anche se solo parzialmente persona riconosciuta non solo nel rispetto e nella cura dei suoi bisogni ma soprattutto nell’ascolto del suo mondo desiderante e nell’esercizio dei suoi diritti. La vita istituzionale diviene così una sorta di laboratorio di vita sociale in cui il progetto collettivo è prodotto non dall’alto, in quel paternalismo assistenziale spesso ancora così sottilmente presente in alcune istituzioni, ma nella partecipazione di tutti gli attori di quella scena pubblica e nello stesso tempo privata che è l’istituzione di accoglienza della disabilità. Una disabilità che, è bene ricordarlo, non è solo malattia, deficit, incapacità, ma “modo di vivere”, diversa modalità di “stare nel mondo”, di intendere il passato e il futuro, di sentire il presente. Ogni atto di accoglienza, ogni offerta di una cittadinanza ritrovata, ogni apertura fuori dalle prigioni dei lutti non fatti dei genitori come degli educatori, trasforma la negatività del deficit in una possibilità di esistenza. Un’esistenza che non nomini più il disabile per quello che gli manca, ma per quello che ha e che il diritto di cittadinanza gli offre e gli garantisce come per ogni uomo. Ma la relazione interumana, che si sviluppa nel processo di accoglienza della disabilità, contiene alcuni rischi principali:
1. Il rischio di una relazione non ugualitaria (che non vuole dire “asimmetrica”, condizione necessaria per ogni pratica intersoggettiva e in modo particolare in quelle di aiuto e di cura) che può portare ad una forma parassitaria di dipendenza reciproca tra ospite ed educatore, tra disabile e genitore, tra genitore e educatore. La dipendenza parassitaria può assumere le forme di una grande disponibilità, di un eccessivo investimento affettivo, di una falsa prossimità, ma anche quelle più mascherate di un tentativo permanente e fallimentare di riparazione di qualcosa che si ritiene danneggiato, di onnipotenza e di seguito di un’elaborazione paranoica della colpa pronta a trovare fuori il colpevole dell’insuccesso, del tradimento di un fantasma di dipendenza riparativa assoluta. È nella dimensione dipendente di questa relazione che si celano molte delle incomprensioni tra genitori ed educatori, ove gli uni affidano il proprio caro disabile all’educatore perché lo ripari e cancelli in qualche modo il sentimento che quel deficit permanente continua ad evocare. La relazione ineguale è l’espressione di un lutto reciproco non fatto pienamente; da parte degli educatori il lutto della loro onnipotenza e forse quello di ciò che li ha spinti inconsapevolmente a divenire educatori ed a occuparsi di disabilità, come se anche loro avessero qualcosa da riparare dentro il mondo interno o dentro la propria storia di vita; da parte dei genitori il lutto di un oggetto d’amore da cui non si riesce a separare la dimensione di realtà del proprio figlio da quella immaginaria, che non sopporta le differenze e le diversità. Questa mancata separazione rinnova costantemente la ferita narcisistica che un giorno si è aperta e che permane così come “ieri” fosse sempre “ancora oggi”.
2. Un secondo rischio è quello dell’esclusione non solo dalla società (problema su cui già molto si lavora con qualche successo) ma dalla reciprocità. Una reciprocità, che è il cuore di quel diritto-dovere alla cittadinanza che deve essere riattivato, sostenuto, garantito al disabile già dentro quella micro-società che è l’istituzione in cui vive o trascorre gran parte della sua giornata in modo permanente. Reciprocità vuol dire fondamentalmente partecipazione alle decisione e alle scelte della propria micro-comunità da parte dell’ospite (la parola “ospite” non esprime del tutto queste attenzione alla cittadinanza, anzi in genere gli ospiti sebbene rispettati, accuditi , curati, nutriti ecc. sono esclusi perché stranieri dalla cittadinanza..). Come fare allora dell’ospite un “cittadino“ della micro-società istituzionale”? Si comprende che questo progetto diviene alternativo a qualsiasi residuo autoritario-burocratico, che ancora anima sotterraneamente molte nostre istituzioni sociali in un’epoca di economicismo socio-sanitario o di amorevole “paternalismo”. Il ripristino di un’etica della reciprocità, come descritta da Maurice Nédoncelle, di quel dare per ricevere, che governa la relazione intersoggettiva più autentica, implica il passaggio da una colpa paranoica ad una colpa più depressiva, per dirla con Grinberg, e quindi è indizio di un lavoro del lutto (“processo intrapsichico, susseguente alla perdita di un oggetto amato, e con cui il soggetto riesce gradualmente a distaccarsi da esso”) per poter nuovamente investire l’altro, il soggetto diversamente abile che è e non ciò che avrebbe dovuto essere se non fosse stato disabile.
3. Un ulteriore rischio che appartiene agli esiti di un lutto non concluso o veramente patologico, è più fondamentale, un rischio di negazione esistenziale. Concerne l’esistenza stessa del soggetto disabile che può essere “ricoperto da un bilancio negativo”. Il disabile non è altro qui che la sua disabilità. Si nega così, scrive Pélicier, “la personnalité au profit du personnage”.
Il processo di lutto è nell’accoglienza e nell’incontro con il soggetto disabile condizione di lavoro psichico permanente, come lo è purtroppo permanente nei genitori costretti ad un “lutto che non finisce mai”. Accettare di essere educatori imperfetti e genitori imperfetti senza voler evacuare questa imperfezione dolorosa negli altri, in fughe onnipotenti professionali o in enfatizzazioni dei buoni sentimenti, che tutto dovrebbero risolvere, è la condizione essenziale di un lavoro difficile e costante di co-costruzione a cui tutti istituzione, équipes curanti, ospiti e familiari sono coinvolti. Solo così le tecniche pedagogiche–riabilitative, orientate alla dimensione esistenziale, insieme all’effetto del milieu di cura e alla relazione affettiva, potranno essere piegate a quella dimensione esistenziale, in cui vi sarà posto accanto alla performance misurabile della cura, l’esperienza del desiderio ritrovato e custodito, del diritto di esistere, perché ogni esistenza, anche quella di una persona diversamente abile, è abitata dai molti mondi dell’umanamente umano, che contiene la perla luminosa della vita .
Comano , 17 maggio 2024
Graziano Martignoni. Medico, psichiatra e psicoterapeuta FMH. Membro della Commissione di etica clinica nell’ambito della disabilità.