C’è un enorme problema. Un problema che va dall’utilizzo ingiustificabile di linguaggio discriminatorio alla continua esclusione delle istanze delle persone disabili dai propri movimenti, passando per la retorica dei “parassiti dello stato” e quella cara vecchia demonizzazione dell’assistenzialismo dura a morire. Eppure le persone disabili costituiscono il gruppo minoritario più grande del nostro pianeta (si stima che a vivere con una disabilità sia il 15% della popolazione mondiale, pari a circa 1 miliardo di persone). Un gruppo minoritario escluso ma che non esclude, perché la salute di ognuno di noi è imprevedibile e destinata a mutare: la stessa OMS dichiara infatti che “la disabilità è parte della condizione umana. Ognuno di noi, a un certo punto della vita, sarà temporaneamente o permanentemente una persona con disabilità”. Non solo: lavoratori e lavoratrici appartenenti alla classe operaia hanno una probabilità particolarmente alta di diventare disabili nel corso della loro vita, a causa di incidenti sul lavoro e condizioni di sfruttamento che ledono il corpo e la mente.
Le persone disabili sono sempre state la categoria statisticamente più povera e svantaggiata a livello socioeconomico, escluse dal mondo del lavoro da una parte, vittime di violenza, sfruttamento economico (basti pensare a tutte le industrie e le professioni nate intorno alle disabilità) e discriminazione istituzionale dall’altra, senza tutele o sistemi di supporto adeguati. E il trucco più infimo del capitalismo? Definire il significato di disabilità per poi lavarsene completamente le mani, negando ogni responsabilità sistemica e riuscendo a fare emarginare le persone disabili persino dalla classe lavoratrice. Ma la disabilità non è un problema delle persone disabili, è un problema del capitalismo. E finché non abbracceremo questa consapevolezza, la lotta di classe non potrà dirsi inclusiva.
Va detto che facendo una breve ricerca su Google, si trovano diverse scale di misurazione del dolore pensate per agevolare la comunicazione medico-paziente: strumenti che provano a mettere a disposizione di entrambe le parti un sistema chiaro, con valori che vanno dall’1 al 10, per quantificare i sintomi in esame. Anche con uno schema dettagliato davanti, però, rimane difficile decifrare e quantificare qualcosa di così soggettivo come il dolore. Soggettivo non perché arbitrario e opinabile, ma perché la percezione dell’entità dello stesso tipo di malessere può cambiare da persona a persona; e poiché la percezione del dolore è soggettiva, anche la scelta dei termini qualitativi con cui lo descriviamo può variare. È martellante? Pulsante? Un crampo? Un bruciore? O è come una pugnalata? (Che poi è paradossale che, per descrivere qualcosa di invisibile ed elusivo come il nostro dolore, qualcosa che gli altri fanno fatica a immaginare, spesso ci ritroviamo a tracciare paragoni con esperienze che nemmeno abbiamo mai fatto, come una pugnalata).
Io ci ho messo anni per accorgermi che il mio dolore era cronico. All’espressione ‘malattia cronica’ associavo l’idea di sintomi insopportabili e frequenti ricoveri in ospedale. Effettivamente, ancora oggi, non so dire se nella scala del dolore sia mai arrivata a un 10 o a un 9, l’abilismo interiorizzato mi ha fatto credere a lungo che, se c’era chi stava peggio di me, allora non stavo davvero male. Poi ho capito che il dolore cronico può assumere diverse forme, più subdole ed elusive, come quella di un malessere lieve ma incessante. Nel mio caso si tratta principalmente di questo: percepire costantemente il mio corpo (una cosa che a quanto pare non succede alle persone sane) e sentirmi sempre e comunque scomoda in qualunque posizione mi metta. Attualmente ci viene fatto credere che gli aiuti fondamentali siano invece bonus, contributi, un premio/contentino invece che minima e insufficiente decenza. Che passa in secondo piano è quanto pesi il privilegio economico o la posizione sociale di una famiglia nelle diagnosi tempestive (oltre che per affrontare terapie spesso costosissime, perché ancora sperimentali e non coperte). Ed è un tema che va affrontato. Il nostro talento è questo: se la strada davanti a noi è dritta, riusciamo a trasformarla in un percorso tortuoso, una matassa in cui mani e piedi rimangono impigliati; paradossalmente, però, se la matassa è aggrovigliata già in partenza, con molta probabilità saremo proprio noi a sgrovigliarla in tempo record.
E lo capisco, lo capiamo, che questa contraddizione può confondere. La logica la fa la norma. Ma solo perché, di norma, una cosa è logicamente più facile di un‘altra, questo non significa che lo sia per tutt*, né che la facilità sia il carburante che fa muovere ogni persona. Di questo e molto altro si sta parlando nella comunità delle persone con disabilità. C’è movimento, per guardare al futuro, negli ultimi anni le nostre istanze sono diventate terreno di studio come mai prima. I festeggiamenti della Convenzione Onu, piuttosto che l’attivismo di una generazione che fiorisce, l’hanno reso priorità. Il Ticino ha fatto e continuerà a fare: sono stata parte della commissione per la sessione parlamentare di Bellinzona, piuttosto che ho parlato a Berna nella Prima sessione delle persone con Disabilità parlando di Abilismo (la forma di pregiudizio più invasiva degli ultimi anni) e il prossimo 5 settembre sarò portavoce di questo cantone sulla piazza federale alla consegna delle firme per l’Iniziativa dell’inclusione.
Il mio impegno sociopolitico è costante in tal senso, per fare da ponte. Orgogliosamente, vivi, autodeterminati e liberi.
Denise Carniel, attivista per i diritti delle persone con disabilità